Votate chi vi pare, ma votate

Domani si va a votare. A me piace andare a votare, mi viene sempre un po’ da sorridere perché non mi pare vero, sono tredici anni che voto e ogni volta mi mette un po’ d’emozione andare nella mia vecchia scuola materna (o media, per un periodo), salutare il poliziotto, entrare, dare i documenti, prendere la matita e il foglio, andare dietro il paravento di legno — lo stesso che vedevo accatastato nei corridoi quando a scuola ci andavo da alunno —, mettere la crocetta, sperare di riuscire a piegare il foglio in meno di cinque tentativi, riconsegnare la matita, e poi mettere la scheda nell’urna. Ecco, soprattutto quello mi emoziona ogni volta. Mi sento importante.

E lo so che oggi è tanto comune sparare a zero, “sono tutti uguali”, “sono tutti corrotti”, “mandiamoli a casa”; e poi quelli che “io non voto perché non cambia mai niente”. Sarà. Ma per quanto imperfetta sia la democrazia, è comunque la cosa migliore che abbiamo; e votare è il momento in cui si può fare una differenza, in un senso o nell’altro. Perché rinunciarci? Non votare “perché non cambia niente” è come spararsi in un piede per dimostrare che il fucile era carico. Facile, poi, lamentarsi che non cambia niente. Ma al di là di tutte le idee politiche che ognuno di noi ha, il voto è importante; che si tratti di amministrative, politiche, europee o referendum non importa.

Ultimamente, ogni volta che vado a votare, mi cade l’occhio sul registro degli elettori. È vero che io spesso ci vado presto, perché sono impaziente e, l’ho detto, andare a votare mi piace. Ma anche nei casi in cui sono andato più tardi, l’ho sempre visto miseramente vuoto. E questo è un male per tutti, perché come si può pensare di essere rappresentativi — ripeto, al di là del risultato — se non andiamo a dire la nostra?

Fate un favore a voi stessi e domani un quarto d’ora mettetelo da parte per andare al seggio. Votate chi vi pare, ma votate!

Harajuku Fashion Walk Pescara, quarta edizione

Sabato scorso, il 28 settembre 2013, si è tenuta a Pescara la quarta edizione dell’Harajuku Fashion Walk locale. Di che si tratta? Ve lo spiego subito, anche perché fino a poche settimane prima nemmeno io ne avevo idea.

Harajuku è, riassumendo e semplificando, il quartiere della moda di Tokyo; diciamo che può essere paragonato, con le dovute differenze, a Via Montenapoleone di Milano.
Una Fashion Walk, invece, è esattamente quello che suggerisce il nome: una passeggiata di gruppo per le vie della città in cui tutti i partecipanti sono vestiti secondo un certo stile.

Circa un mese fa la mia amica e modella Mara mi ha invitato su Facebook a questo evento, dicendomi che mi sarei divertito a scattare foto. In effetti non si vedono spesso persone vestite in modo così esuberante, e mi sono detto: perché no?
In realtà, per tutta una serie di coincidenze, fino a un’ora prima dell’incontro non sapevo ancora se sarei andato, ma alle 15:30, puntuale come un orologio della Casio (siamo in Giappone, no?) mi sono ritrovato alla Stazione Centrale di Pescara a chiacchierare con Mara e ad aspettare che arrivassero gli altri.

Era già prevista la presenza di un fotografo ufficiale, quindi non ho mai avuto la pretesa di realizzare foto perfette; piuttosto, ho approfittato dell’occasione per fare una cosa che non faccio mai: immortalare momenti spontanei, quasi fossero scatti rubati. Non lo faccio mai perché qui a Chieti la gente è sospettosa, e andare in giro con una macchina fotografica attira troppi sguardi; non solo, c’è anche il rischio concreto che qualcuno si innervosisca…

Il percorso della passeggiata è stato piuttosto breve, dalla Stazione Centrale a Piazza della Repubblica (dove, tra le altre cose, c’era un tizio che portava a spasso un maialino — come se non bastasse l’esuberanza di una trentina di ragazze vestite alla moda Giapponese!) Qui, nei pressi della Nave di Cascella, Andrea — fotografo ufficiale nonché persona gentilissima — ha scattato foto a ognuno dei partecipanti. Io, dimenticandomi che sono timido e comunque cercando di non dare fastidio, mi sono messo lì a fianco e ho scattato abbondantemente… al punto da dover tirare fuori la memoria d’emergenza.
Nel frattempo, ovviamente, i passanti si fermavano e si facevano fotografare con le ragazze che aspettavano il loro turno per le foto ufficiali di Andrea (e quelle rubate del sottoscritto) o che le avevano già fatte.

Ora, chi mi conosce sa che io non sono esattamente un nipponofilo. Semplicemente non sono mai stato appassionato di anime, manga, o di cultura giapponese, né classica né moderna; mi affascina alla lontana, mi incuriosisce il divario enorme tra tradizione e modernità e conosco più o meno la storia di Yataro Iwasaki e della sua Mitsubishi, che di fatto è stata lo spartiacque tra antico e moderno (grazie, History Channel!), ma mi fermo lì. Anche la mia passione per le lingue, del resto, non riguarda molto quelle orientali; sarà che non so disegnare e se provassi a studiare il giapponese (o il cinese, o il coreano, o il thailandese, ci siamo capiti insomma) finirei per insultare qualcuno solo scrivendo il mio nome…

In ogni caso, è proprio per questo mio essere “infiltrato” all’Harajuku Fashion Walk che sono rimasto molto colpito dalle reazioni, tutte più che positive, che le partecipanti hanno avuto su Facebook quando ho iniziato a pubblicare le foto.
Innanzitutto devo dire che l’organizzatrice, Grazia, è una persona deliziosa; non saprei quale altro aggettivo usare. Abbiamo chiacchierato a lungo nei giorni successivi alla passeggiata, mi ha spiegato un po’ di retroscena delle Fashion Walks, e mi ha fatto sentire “a casa” nonostante, appunto, io fossi una specie di infiltrato.
In realtà sono stato quasi sopraffatto — positivamente! — dalle reazioni alle mie foto da parte di tutte le persone che ho fotografato. Già questo è un po’ insolito, visto che sono abituato alle lamentele di chi non si piace ;-), ma quello che mi ha stupito di più è stato ricevere complimenti proprio sugli scatti “rubati”.
Non solo: più di una ragazza ha usato una delle mie foto come foto profilo e/o di copertina su Facebook (!), più di una ragazza mi ha definito “fotografo professionista” (!!) e più di una ragazza ha espresso interesse nel posare per me in studio (!!!). Chissà che finalmente la fotografia non diventi davvero un secondo lavoro…

In ogni caso, durante questa settimana ho avuto modo di chiacchierare con molte di loro, tutte persone semplicemente meravigliose. La prossima Harajuku Fashion Walk a Pescara ci sarà tra novembre e dicembre, e sicuramente non mancherò. Chissà che prima o poi non riusciranno a convincermi a mettermi in costume… 😉

Questo post, quindi, è semplicemente per ringraziare — di cuore! — tutte le persone che c’erano sabato. Era da un pezzo che non mi divertivo così. 🙂

Potete vedere le mie foto su Flickr o su Facebook. Non dimenticate di mettere “mi piace” alla mia pagina per ricevere tutti gli aggiornamenti!

Il gruppo di partecipanti, alla partenza

Il gruppo di partecipanti alla partenza

Lunga vita ai nerd!

Sul suo blog sul Post, Roberto Gagnor ha pubblicato un interessante articolo sulla percezione dei “secchioni” nella società italiana, facendo particolare riferimento alla televisione. D’altro canto, checché se ne dica, la TV — soprattutto quella cosiddetta “generalista” — è e resta lo specchio del modo di pensare della maggioranza.

Nel suo articolo, il buon Gagnor fa notare come chi sa le cose (ed è disposto a spiegarle) venga solitamente ridicolizzato, se non addirittura preso di mira, da chi le cose non le sa, e soprattutto non le vuole sapere. Scrive l’autore, e i lettori nei commenti confermano, che i non-secchioni non sono solo ignoranti: si vantano addirittura della loro ignoranza, mettendo gli altri, quelli che ignoranti non sono, quasi nella condizione di doversi quasi scusare. Il termine “secchione”, sostanzialmente, usato come insulto.

Io a scuola sono sempre andato bene. Ho faticato non poco in matematica alle superiori, vero, un po’ perché i miei interessi culturali stavano cambiando e un po’ perché, lasciatemelo dire, definire mediocre il mio professore del biennio sarebbe già un enorme complemento. Purtroppo, non avendo solide basi, è difficile andare avanti. In ogni caso, nelle altre materie non ho mai avuto particolari problemi, anzi alla fine sul mio diploma c’era scritto 95/100. Non ero “petulante e presuntuoso”, come secondo Gagnor sono spesso percepiti i secchioni dai non-secchioni, anche perché la mia timidezza cronica me l’ha sempre impedito. D’altro canto non sono mai stato uno che passava troppo tempo sui libri: stavo attento a scuola e a casa dovevo lavorare meno. Non ero scemo.

Nel corso degli anni, e con l’aumentare delle mie conoscenze in campo informatico e non solo, mi sono sicuramente reso fastidioso agli occhi di qualcuno. Guarda caso, però, si trattava sempre di persone simili al “compagno che scoreggia e mette la puntina sotto la sedia del professore” che cita Gagnor nel suo articolo. In altre parole: gente fiera della propria pochezza culturale.

Uno dei più comuni appellativi che mi sono stati affibbiati da queste pesone è quello di “nerd”, con intento chiaramente offensivo. La cosa in realtà è abbastanza divertente, anche perché è un termine che si presta benissimo al concetto sociolinguistico di riappropriazione (di cui ho parlato, in inglese, sul mio blog Avian Bone Syndrome).
Per dirla in due parole: ci sono termini che nascono come offensivi verso un determinato gruppo di persone, normalmente una minoranza, ma col tempo gli appartenenti a quel gruppo cominciano a usarlo per riferirsi a sé stessi. A mano a mano il peso offensivo di quella parola tende a diminuire quando viene usato da persone esterne al gruppo, ma viene rafforzata la segregazione tra chi ne fa parte e chi non lo è. Questo può essere considerato anche più offensivo, dato che la percezione è che venga minata l’identità stessa di quella minoranza. Se volete capirci qualcosa in più vi conviene leggere quel post. Torniamo a noi.

“Nerd”, ovviamente, non ha le implicazioni socio-politiche dei termini offensivi usati per riferirsi a nazionalità, gruppi etnici od orientiamenti sessuali. Nel suo piccolo ha però un discreto impatto, anche se negli ultimi anni quando l’essere chiamati “nerd” è una cosa che noi, destinatari di tale epiteto (o presunto tale!), prendiamo con surreale divertimento. Certo, preferiremmo essere chiamati “geek” che è più rispettoso, ma considerato che la maggior parte degli italiani lo pronuncerebbe male ci accontentiamo di essere chiamati “nerd” e di vedere la reazione infastidita di chi si rende conto che non ci offende affatto, anzi, per noi è quasi un complimento.

Perché, vedete, noi sappiamo che non c’è niente di male nel sapere le cose, soprattutto se si tratta di tecnologia. Non c’è niente di male nell’usare il cervello e non sapere come fare la pizza in casa, così come non c’è niente di male nell’essere pizzaioli provetti e non saper mandare un sms. La differenza è che noi non ci sentiamo inferiori perché non sappiamo fare la pizza, e soprattutto non cerchiamo di far sentire inferiori, paradossalmente, chi ne sa più di noi; anzi, massimo rispetto per i pizzaioli, per i muratori, per gli idraulici, per gli operai. Che senso ha insultare uno che ne sa di più, soprattutto se vuole insegnarci qualcosa?

Noi “nerd” possiamo essere timidi, possiamo portare occhiali spessi come il fondo delle pentole Mondial Casa, possiamo avere i capelli sempre fuori posto. Possiamo anche essere degli emeriti rompiscatole se ci dà fastidio vedere gente che non sa scrivere in un italiano almeno decente, o se sbuffiamo quando chi ci chiede aiuto col computer non si è segnato il messaggio di errore e pretende che noi, magicamente, sappiamo cosa è andato storto.

Eppure, vedete, pensate a quello che state facendo: state leggendo questo post su un blog, ossia su un sito. Da qualche parte c’è stato un nerd che ha configurato il server web scritto da dei nerd su un sistema operativo scritto da altri nerd. Ancora altri nerd da qualche parte hanno tirato le migliaia di chilometri di fili tra il server e la vostra linea del telefono, inclusi i nerd che hanno smanettato nella centralina adsl o sul ripetitore a cui siete collegati. E il vostro browser è stato scritto da alcuni nerd e gira su un sistema operativo scritto da nerd. Il vostro telefono funziona, anzi esiste, grazie ai nerd. Potete guardare un film al cinema grazie ai nerd che hanno studiato noiosissime formule di ottica perché altri nerd con il pallino di scoprire come funziona il mondo si sono messi a fare delle prove con un pezzo di vetro convesso, qualche secolo fa, e grazie ai nerd che hanno scoperto come imprimere delle immagini su una pellicola. Il vostro ascensore funziona perché migliaia di anni fa un nerd sconoscuito ha scoperto il principio della carrucola. Tesla era un nerd. Edison era un nerd. Einstein era un nerd. Higgs è un nerd. Jobs era un nerd. Il tizio che ha inventato Bittorrent è un nerd ed è pure autistico. E il pizzaiolo della vostra pizzeria preferita, beh, è un nerd pure lui nel suo campo. E per fortuna che lo è!

Pensare di insultare qualcuno che ne sa più di voi in campo tecnologico chiamandolo “nerd” lo farà divertire, anche solo per un motivo: vi giocate la possibilità di farvi sistemare da lui qualcosa che non va. Una persona, di cui non farò il nome, si è divertita a chiamarmi così per diverso tempo. Poi ha speso €70 (settanta euro) per farsi cambiare una presa difettosa da un elettricista. Io, da bravo nerd, so farlo da solo: spendo €3 (tre euro) di materiale e in meno di cinque minuti ho finito. Però, beh, volete mettere la sua soddisfazione di non essere nerd come me?


Un nerd costruito da un nerd:

(“Short Circuit 2”, 1988)


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